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Finale Eastern Conference: Orlando Magic 4 - Cleveland Cavaliers 2

“Il Re è morto, viva il Re!”, si diceva nei tempi antichi. Difficile però udirlo oggi, anche se in effetti il Re è caduto, lasciando le armi sul parquet della Amway Arena e sfuggendo direttamente dagli spogliatoi all’autobus della squadra, eludendo, ironicamente, quegli stessi media che non fanno mai economia quando si tratta di proporre la sua immagine.
E così, non ci sarà nessun Kobe vs LeBron, con buona pace dei tifosi e dei pupazzi degli spot mandati in onda un po’ troppo in anticipo; i Magic hanno scosso la NBA riscrivendo una serie che sembrava già sigillata con la ceralacca e reclamando un posto nella lotta per l’anello. Vediamo come ci sono riusciti.

Le statistiche: gli americani le adorano, noi europei un po’ meno. Ma in questo caso, dobbiamo anche noi piegarci alla loro eloquenza. 38,5 punti 8 assist 8,3 rimbalzi; queste le medie tenute da LeBron James nelle 6 partite della serie. Si capisce che quando il tuo miglior giocatore mette insieme prestazioni di questo tipo, l’avversario può pure essere fortissimo (e lo era), ma se perdi la responsabilità dev’essere anche un po’ tua. Difficile biasimare qualcosa al numero 23 dei Cavaliers, che avrebbe meritato un’uscita a testa alta anziché quella ritirata dietro le quinte. Ma c’è da capirlo; nell’anno in cui il misero roster si era arricchito di un buon realizzatore come Mo Williams e il clamore intorno al “fenomeno James” si era intensificato fino a portargli già quasi l’anello al dito, ecco che arriva una brusca altalena di sensazioni. Il premio di MVP, a coronamento della sua stagione migliore, la tripla sulla sirena in gara 2 – il tiro – e poi, pochi giorni dopo, la delusione più cocente della carriera.
E gli altri, dov’erano? Anche chi non avesse visto una singola partita della serie potrebbe rispondere, dando ancora un’occhiata alle statistiche, in questo caso veritiere. Le pessime percentuali al tiro di Williams, la pochezza di titolari come Ilgauskas e West, l’apporto praticamente nullo della panchina. Ovvio, si sapeva fin dal principio che la rosa dei Cavs non faceva gridare al miracolo, eppure avevano concluso la stagione regolare col miglior record. Certo, con la difesa, con l’intensità, con la cattiveria. Tutte qualità andate perse dopo le camminate trionfali contro Pistons e Hawks, e mai più recuperate; la fiducia dei compagni nel loro leader ha superato quella sottile linea oltre la quale, in parole povere, pensi solo a dargli la palla, al diavolo il resto. Già, ma i Cavaliers avevano anche l’allenatore dell’anno, Mike Brown. Prendiamo i singoli dati nel dettaglio. Il gauskas è stato messo in imbarazzo da Howard sempre e comunque, senza che nulla mutasse; discorso simile per Lewis e Turkoglu, che a turno si divertivano a strapazzare il malcapitato difensore di turno. La panchina non ha dato niente o quasi; Daniel Gibson ha fatto bene quando è entrato, ma le sue esperienze sul parquet si sono limitate a pochi minuti. Il quintetto piccolo, fastidioso per i Magic, è stato usato con continuità solo nelle ultime due partite. E per finire, gioco assente, motivazione della squadra idem. Non serve aggiungere altro su un allenatore che, immobile, è stato muto osservatore del crollo della sua squadra.
Passiamo, finalmente, sul lato della collina baciato dal sole. I Magic sono sembrati un po’ come quelle statue di cristallo, che non osi toccarle per paura che si rompano, tanto sembrano inspiegabilmente perfette. Stan Van Gundy, caotico, concitato, rissoso e inopportuno come sempre, stavolta ha azzeccato il colpo giusto. Ha tirato fuori il massimo dai suoi giocatori, vedere l’apporto sempre costante di gente come Gortat e Johnson e l’ottima alternanza tra Lee e Pietrus, e sul piano tattico, senza nemmeno strafare, ha messo in ginocchio Brown. Beh, diciamo che lui era già seduto. Si sapeva che questi Magic andavano indigesti a Cleveland, la storia dei confronti diretti delle ultime stagioni lo conferma, ma andare a batterli sul loro campo, mantenere sempre il controllo della serie e in un paio di occasioni riuscire a vincerla con lucidità negli ultimi minuti, questo è un altro paio di maniche. L’immagine di Orlando in finale stride un po’ con il ricordo delle difficoltà inaspettate nella serie contro Philadelphia, ma la forza della squadra è stata proprio questa; si sono rafforzati superando gli ostacoli, lo stesso Van Gundy ha imparato a capire meglio i suoi giocatori strada facendo, e tutti insieme, senza un vero leader ma con tanti uomini di carattere, hanno ripreso e corretto i loro errori. La serie con Boston è stata fondamentale; li hanno sorpresi con la loro freschezza, poi hanno dovuto fare i conti con la maggiore esperienza degli avversari, si sono fatti rimontare e battere in volata, sono stati aggrediti ogni volta che perdevano la concentrazione, e infine in gara 7 hanno abolito ogni calo di ritmo, precisi e lucidi nell’esecuzione, sbancando il Garden. James, da solo, come poteva combattere con una macchina così ben oliata? Così è nata la Cenerentola (definizione che ci sta ma fino a un certo punto, anche in RS non hanno mica scherzato) che fa innamorare chi non ama particolarmente i grandi nomi e sogna il gioco di squadra, il gioco onesto, poco fisico, e gli spazi liberi per il tiro da 3. Ma Alice adesso deve lasciare il paese delle meraviglie per trasferirsi a Los Angeles, città conosciuta ai più per tutt’altro; quanto peseranno questi stessi pregi della franchigia della Florida? Sul parquet dello Staples, un vero leader e qualcuno che faccia il lavoro sporco potrebbero tornare utili. Ma non roviniamoci l’attesa; signori, è tempo di queste strane, inaspettate, imprevedibili Finals.

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