0

Apologia del cestista americano in Italia

Cosa sarebbe il basket in Italia senza gli americani? Ogni tanto rispunta la “polemica” sugli americani che tolgono spazio agli italiani: cos’hanno di più molti di loro rispetto ai giocatori nostrani? Si dice. Certo, ce ne sono e ce ne sono stati diversi che hanno avuto un rendimento diciamo rivedibile, ma ciò non può mettere in discussione il fatto che hanno dato e danno un apporto fondamentale a rendere i nostri campionati più interessanti e spettacolari. E non solo dal punto di vista strettamente tecnico: l’arrivo degli americani ogni anno suscita curiosità, sono un’incognita anche a livello di ambientamento sociale, soprattutto se “rookie” al primo impatto con i campionati in terra europea. Ed essendo il basket italiano formato prima di tutto da realtà di provincia, il rapporto diretto con i concittadini-tifosi rende il tutto un’occasione unica di confronto con persone provenienti da culture diverse, specialmente quella afroamericana, fino a vent’anni fa estranea alla nostra come non mai (a differenza dei Paesi europei colonialisti). Oltre a fornire un campionario di storie ed aneddoti tra il divertente ed il surreale, oltre che di buoni sentimenti “no borders”: provate a chiedere in giro in cittadine come Cantù, Biella, Roseto, dove si vive di basket a stretto contatto con i suoi protagonisti.
Elliot Van Zandt
Probabilmente la nostra pallacanestro non avrebbe conosciuto lo stesso sviluppo, portandoci al vertice dell’Europa per un trentennio, senza un sergente afroamericano, tale Elliot Van Zandt, che al termine della Seconda Guerra Mondiale decise di fermarsi in Italia ad insegnare basket. Fu allenatore della Nazionale tra il 1947 e il 1951, divulgando la più avanzata cultura cestistica di allora proveniente da oltreoceano: il suo tormentone era Fundamentals, Fundamentals, Fundamentals!, oltre ad introdurre il “dai e vai” e il “dai e segui”. Van Zandt formò un’intera generazione, attività proseguita dal suo successore, un altro americano, Jim McGregor, che era però un bianco, come lo erano la maggior parte dei primi americani giunti nel nostro Paese.
La curva "Gary Schull"
Autentici fuoriclasse sono stati negli anni settanta Bob Morse, trascinatore nei leggendari trionfi di Varese, lo “sceriffo” Chuck Jura, cannoniere implacabile dell’allora seconda squadra di Milano, il fumantino Jhon “Kociss” Fultz e l'impeccabile Terry Driscoll, icone della Virtus Bologna, e l’indimenticato “barone” della Fortitudo Gary Schull, scomparso prematuramente nel 2005, il cui numero 13 capeggia sopra la curva biancoblu del PalaDozza. 
Negli anni successivi c’è stato un boom degli americani “colored”: tanti sono stati gli afroamericani hanno fatto la storia delle rispettive squadre, rimanendo legati con la città anche dopo la fine della propria carriera. 
Willie Sojourner
Come non pesare al compianto Willie Sojourner, bandiera della Sebastiani Rieti scomparso nel 2005 in un incidente stradale, un mese dopo il suo ritorno nella città laziale, a cui è stato intitolato il palazzetto, unico cestista americano in Italia a ricevere tale onore. 
Splendida la storia di Abdul Jelani, idolo della Lazio Basket di fine anni settanta e poi a Livorno dopo una breve parentesi in NBA: finito in disgrazia dopo il ritorno in patria a fine carriera, è stato rintracciato dopo più di vent’anni dalla “sua” Lazio Basket per riportarlo nella capitale ad allenare i ragazzini, strappandolo ad una vita da senzatetto. 
Un altro fuoriclasse degli anni a cavallo tra i settanta e gli ottanta, Charlie Yelverton, campione d’Italia e d’Europa con Varese, una volta appese le scarpe al chiodo ha scelto di rimanere a vivere nel Bel Paese, sposando una ragazza italiana, tra gli allenamenti dei ragazzini e i concerti della sua band jazz in cui suona il sassofono, altra sua grande passione. 
Kobe Bryant a Cireglio, frazone di Pistoia
Fu lui ad insegnare diversi trucchi del mestiere nel corso di un camp estivo ad un promettente ragazzino di nome Kobe Bryant, figlio di “Jelly Bean” Joe, uno dei migliori giocatori visti in serie A tra Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia. La “plurianellata” stella dei Lakers non perde mai occasione di tornare nei luoghi dove ha vissuto al seguito dei genitori, sfoggiando il suo impeccabile italiano: questa estate ha visitato Cireglio, piccolo paese nei pressi di Pistoia. 
La fine degli anni ottanta ha visto l’arrivo di stelle NBA al termine della propria carriera come George Gervin, Derryl Dawkins e Bob McAdoo, esempi di passione per lo sport, che hanno dato senz’altro lustro al periodo forse più prestigioso del nostro basket. 
"Sugar" Richardson 
Autentico genio ribelle, una futuro da all-star NBA gettato al vento per la positività alla cocaina, “Sugar” Ray Richardson a Bologna trovò il suo angolo di paradiso cestistico, firmando la conquista da parte della Virtus di due Coppe Italia e di una Coppa delle Coppe tra il 1988 e il 1990. Anche lui non resistette al richiamo dell’Italia, tornando a giocare in A2 nel 1998 a Forlì, alla veneranda età di 43 anni. 
Dan Gay
Longevità in campo che riporta alla mente quella di due veri e propri italiani acquisti per matrimonio e residenza, come Dan Gay e Larry Middleton, anch’essi ritiratisi nella loro quarta decade. Il primo ha diviso la sua carriera tra Cantù e la Fortitudo, vestendo anche la maglia della Nazionale, il secondo ha cambiato diverse casacche (tra cui Trieste, Pesaro, Siena e Avellino) mettendo a segno canestri a profusione.
Quest’anno il concetto di americano è stato esteso a quella che una volta era la B1, il primo campionato di soli italiani che assegnava uno scudetto a sé, quello dei dilettanti. La possibilità di tesserare due stranieri ha portato all’ingaggio soprattutto di statunitensi “colored” spesso con un’esperienza europea in campionati marginali di area Fiba, compatibili con le limitate risorse economiche della nuova Lega Silver. Le scommesse sono tante, qualcuno deluderà, però una cosa e certa: l’imprevedibilità e lo spettacolo sono garantiti, già nella prima giornata si sono viste azioni spettacolari come penetrazioni ankle-breaker e alley-hoop. Nulla a che vedere con la purezza tecnico-tattica, ma il pubblico chiede anche momenti di “gasamento”, azioni che l’atletismo degli afroamericani può fornire a piene mani. A ciò si aggiunge che alcune scelte dei manager sono state formidabili, trovando elementi di assoluto valore, sfuggiti o sottovalutati dai colleghi delle categorie superiori. Il livello di talento del terzo campionato italiano è quindi salito, e questo spinge gli italiani a dare qualcosa in più, con i più giovani che possono iniziare a confrontarsi e abituarsi ad un livello fisico e di talento che troveranno in misura maggiore ai piani più alti.

Nessun commento:

Posta un commento