
Los Angeles Lakers.
I Lakers, dopo le durissime serie contro i Rockets e i Nuggets, si presentavano a queste Finals convinti e determinati di poter e dover concludere il “business” lasciato in sospeso lo scorso anno. Le difficoltà del gioco dentro fuori erano già state sperimentate nella serie contro Houston quando il duo Yao – Scola aveva messo alla dura prova gli equilibri interni di Gasol e Odom (Bynum, al tempo, era poco più di un ectoplasma alle prese con i primi minuti post-infortunio). Le complessità del gioco perimetrale e in pick’n’roll erano state ampiamente svelate “grazie” al frizzante attacco di Denver che aveva trovato nella capacità realizzativa di Anthony e nella versatilità dei lunghi (Nenè, Andersen, Martin) la chiave di volta per mandare in confusione la difesa di Kobe e soci. Con queste premesse, l’esperienza dei Lakers non poteva che risultare fondamentale per impattare contro il sistema di gioco offensivo dei Magic, ma, si sa, da ciò che si aspetta a ciò che è le differenze sono poi decisive. Quello che, a livello mentale, non poteva essere più tollerato era il rischio di perdere il fattore casalingo e, per assicurarsi che così fosse, Bryant aveva esordito in Gara 1 con 40 punti, 8 rimbalzi e 8 assist prendendosi, di fatto, più tiri di quanto non abbiano fatto – insieme – le tre stelle dei Magic Howard, Lewis e Turkoglu.
I temi offensivi di marca gialloviola, in tutte e 5 le gare, hanno coinvolto principalmente il gioco in post, sfruttando la maggior fisicità di Bryant rispetto ai suoi diretti marcatori (Lee e Pietrus) e i maggior centimetri di Gasol nei confronti di Lewis. Lo spagnolo ha avuto più volte la possibilità di mostrare il Gasol dei vecchi tempi d’oro, affrontando Howard fronte a canestro, costringendolo ad uscire dall’area pitturata grazie al suo tiro in sospensione dalla linea del tiro libero e gestendo il gioco dal cuore dell’area pitturata grazie alle sue doti nel passaggio (sul perimetro per le triple, al Fisher/Ariza di turno nei tagli verso canestro, nei confronti di Bynum o Odom quando la difesa dei Magic lo raddoppiava). Le ottime difese di Orlando (soprattutto nei primi quarti di Gara 3 e Gara 4) hanno costretto i Lakers a soluzioni dalla media distanza, quelle in cui Fisher ha, piano piano, ritrovato il suo gioco e in cui Odom ha mostrato un’affidabilità per certi versi disarmante. Lamar ha mostrato più volte il proprio talento al massimo livello riuscendo a costituire, nei frangenti di gioco riservati alle second units , il principale faro offensivo nell’area pitturata col gioco in post grazie a ricezioni molto profonde, nelle penetrazioni (tutte principalmente a sinistra), nei tiri da 3 (51% dall’arco in questi playoff) e nei middle-range jump shots. A questi temi offensivi, si sono aggiunte le fiammate di Bynum (che ha raccolto, soprattutto nelle due gare casalinghe, buoni frutti dal gioco spalle a canestro) e i breaking points di Ariza, capace di rendersi protagonista di strane, seppur efficaci, penetrazioni a canestro e di triple fondamentali.
Difensivamente, la solidità del duo Gasol – Odom ha raggiunto un’efficacia inattesa, lo spagnolo nella personalità con cui interpreta il ruolo di centro sfoggiando completezza nell’1 contro 1 (contro un Howard nettamente più fisico), negli aiuti difensivi sulle penetrazioni degli esterni, nella capacità di “pulire il ferro” con rimbalzi nel traffico; Odom, dal canto suo, ha mostrato una buona prontezza nelle rotazioni (trovandosi spesso, nei cambi, a marcare con egual efficacia Turkoglu o Lewis), tanta energia a rimbalzo e più che sufficiente attenzione nei tagliafuori dai lati deboli. Il terzo lungo, Bynum, è ancora lontano dal sistema di gioco di questi Lakers, mediocre nelle difese individuali (spesso perfino Howard l’ha portato a passeggio), fuori ritmo negli aiuti e sul pick’n’roll ed usato, spesso, come catalizzatore di falli, evitati ad Odom e Gasol. Arduo il compito di Ariza che non è mai riuscito ad arginare completamente Turkoglu, alternando svarioni incredibili (falli dopo finte di tiro, spaziature troppo ampie sul perimetro, perenni permanenze sui blocchi) a fasi di difesa individuale praticamente perfetta (facendo sentire il fisico al turco, coprendogli le linee di passaggio e guadagnando qualche “steal” per il contropiede). Assolutamente incompiuta la missione difensiva di Fisher, in grado di tenere botta finché l’avversario si limitava alla semplice circolazione di palla, ma incorrendo in affannosi recuperi (tradotto: falli) quando Alston o Nelson decidevano di sfidarlo per andare a canestro; parte di queste mancanze è stata controbilanciata dalla grinta e dalla voglia di vincere, tramutatasi in passaggi sporcati, forzate palle perse e recuperi insperati. Infine, Bryant. Fondamentale, dal punto di vista tattico, nel suo perenne gravitare tra l’area pitturata e il perimetro, risultando un disturbo non da poco alla tendenza al predominio a rimbalzo di Howard e nelle rotazioni difensive che spesso lo hanno visto fare a sportellate con Lewis. Ha concesso spazi sul perimetro a Lee (che spesso non ha realizzato), ma ne ha subito le partenze a canestro così come ha accusato l’energia di Pietrus (soprattutto nei momenti caldi delle due gare in trasferta) nei suoi viaggi al ferro. L’impressione è che abbia fatto di tutto per evitare di concedere triple in ritmo ai suoi diretti marcatori affidandosi ai lunghi in caso di sbavature sulla difesa del diretto avversario.
Da segnalare, da ultimo, a livello di squadra, l’estrema attenzione nei rientri difensivi in transizione per evitare di lasciare uomini dei Magic sul perimetro; vano, talvolta, il tentativo di evitare che Howard potesse ricevere palla nel cuore dell’area piccola.
La buona notizia per il futuro: la mollezza del Gasol dello scorso anno e di quello visto a Salt Lake City sembrano un antico ricordo. Lo spagnolo ha dimostrato di poter essere fondamentale anche e soprattutto nei momenti decisivi sfoderando una sintonia offensiva e difensiva eccellente con Odom, oltre che qualche buona sequenza anche con Bynum.
La cattiva notizia per il futuro: i problemi di salute di Jackson e la voglia con cui Bryant possa ripresentarsi il prossimo anno, dopo aver chiuso tutte le pratiche in sospeso (MVP of the Finals e titolo conseguito da leader incontrastato). Infine, Bynum, la cui tenuta fisica andrà valutata ed esaminata con attenzione (in mezzo, le due situazioni contrattuali di Odom e Ariza).
I Lakers, dopo le durissime serie contro i Rockets e i Nuggets, si presentavano a queste Finals convinti e determinati di poter e dover concludere il “business” lasciato in sospeso lo scorso anno. Le difficoltà del gioco dentro fuori erano già state sperimentate nella serie contro Houston quando il duo Yao – Scola aveva messo alla dura prova gli equilibri interni di Gasol e Odom (Bynum, al tempo, era poco più di un ectoplasma alle prese con i primi minuti post-infortunio). Le complessità del gioco perimetrale e in pick’n’roll erano state ampiamente svelate “grazie” al frizzante attacco di Denver che aveva trovato nella capacità realizzativa di Anthony e nella versatilità dei lunghi (Nenè, Andersen, Martin) la chiave di volta per mandare in confusione la difesa di Kobe e soci. Con queste premesse, l’esperienza dei Lakers non poteva che risultare fondamentale per impattare contro il sistema di gioco offensivo dei Magic, ma, si sa, da ciò che si aspetta a ciò che è le differenze sono poi decisive. Quello che, a livello mentale, non poteva essere più tollerato era il rischio di perdere il fattore casalingo e, per assicurarsi che così fosse, Bryant aveva esordito in Gara 1 con 40 punti, 8 rimbalzi e 8 assist prendendosi, di fatto, più tiri di quanto non abbiano fatto – insieme – le tre stelle dei Magic Howard, Lewis e Turkoglu.
I temi offensivi di marca gialloviola, in tutte e 5 le gare, hanno coinvolto principalmente il gioco in post, sfruttando la maggior fisicità di Bryant rispetto ai suoi diretti marcatori (Lee e Pietrus) e i maggior centimetri di Gasol nei confronti di Lewis. Lo spagnolo ha avuto più volte la possibilità di mostrare il Gasol dei vecchi tempi d’oro, affrontando Howard fronte a canestro, costringendolo ad uscire dall’area pitturata grazie al suo tiro in sospensione dalla linea del tiro libero e gestendo il gioco dal cuore dell’area pitturata grazie alle sue doti nel passaggio (sul perimetro per le triple, al Fisher/Ariza di turno nei tagli verso canestro, nei confronti di Bynum o Odom quando la difesa dei Magic lo raddoppiava). Le ottime difese di Orlando (soprattutto nei primi quarti di Gara 3 e Gara 4) hanno costretto i Lakers a soluzioni dalla media distanza, quelle in cui Fisher ha, piano piano, ritrovato il suo gioco e in cui Odom ha mostrato un’affidabilità per certi versi disarmante. Lamar ha mostrato più volte il proprio talento al massimo livello riuscendo a costituire, nei frangenti di gioco riservati alle second units , il principale faro offensivo nell’area pitturata col gioco in post grazie a ricezioni molto profonde, nelle penetrazioni (tutte principalmente a sinistra), nei tiri da 3 (51% dall’arco in questi playoff) e nei middle-range jump shots. A questi temi offensivi, si sono aggiunte le fiammate di Bynum (che ha raccolto, soprattutto nelle due gare casalinghe, buoni frutti dal gioco spalle a canestro) e i breaking points di Ariza, capace di rendersi protagonista di strane, seppur efficaci, penetrazioni a canestro e di triple fondamentali.
Difensivamente, la solidità del duo Gasol – Odom ha raggiunto un’efficacia inattesa, lo spagnolo nella personalità con cui interpreta il ruolo di centro sfoggiando completezza nell’1 contro 1 (contro un Howard nettamente più fisico), negli aiuti difensivi sulle penetrazioni degli esterni, nella capacità di “pulire il ferro” con rimbalzi nel traffico; Odom, dal canto suo, ha mostrato una buona prontezza nelle rotazioni (trovandosi spesso, nei cambi, a marcare con egual efficacia Turkoglu o Lewis), tanta energia a rimbalzo e più che sufficiente attenzione nei tagliafuori dai lati deboli. Il terzo lungo, Bynum, è ancora lontano dal sistema di gioco di questi Lakers, mediocre nelle difese individuali (spesso perfino Howard l’ha portato a passeggio), fuori ritmo negli aiuti e sul pick’n’roll ed usato, spesso, come catalizzatore di falli, evitati ad Odom e Gasol. Arduo il compito di Ariza che non è mai riuscito ad arginare completamente Turkoglu, alternando svarioni incredibili (falli dopo finte di tiro, spaziature troppo ampie sul perimetro, perenni permanenze sui blocchi) a fasi di difesa individuale praticamente perfetta (facendo sentire il fisico al turco, coprendogli le linee di passaggio e guadagnando qualche “steal” per il contropiede). Assolutamente incompiuta la missione difensiva di Fisher, in grado di tenere botta finché l’avversario si limitava alla semplice circolazione di palla, ma incorrendo in affannosi recuperi (tradotto: falli) quando Alston o Nelson decidevano di sfidarlo per andare a canestro; parte di queste mancanze è stata controbilanciata dalla grinta e dalla voglia di vincere, tramutatasi in passaggi sporcati, forzate palle perse e recuperi insperati. Infine, Bryant. Fondamentale, dal punto di vista tattico, nel suo perenne gravitare tra l’area pitturata e il perimetro, risultando un disturbo non da poco alla tendenza al predominio a rimbalzo di Howard e nelle rotazioni difensive che spesso lo hanno visto fare a sportellate con Lewis. Ha concesso spazi sul perimetro a Lee (che spesso non ha realizzato), ma ne ha subito le partenze a canestro così come ha accusato l’energia di Pietrus (soprattutto nei momenti caldi delle due gare in trasferta) nei suoi viaggi al ferro. L’impressione è che abbia fatto di tutto per evitare di concedere triple in ritmo ai suoi diretti marcatori affidandosi ai lunghi in caso di sbavature sulla difesa del diretto avversario.
Da segnalare, da ultimo, a livello di squadra, l’estrema attenzione nei rientri difensivi in transizione per evitare di lasciare uomini dei Magic sul perimetro; vano, talvolta, il tentativo di evitare che Howard potesse ricevere palla nel cuore dell’area piccola.
La buona notizia per il futuro: la mollezza del Gasol dello scorso anno e di quello visto a Salt Lake City sembrano un antico ricordo. Lo spagnolo ha dimostrato di poter essere fondamentale anche e soprattutto nei momenti decisivi sfoderando una sintonia offensiva e difensiva eccellente con Odom, oltre che qualche buona sequenza anche con Bynum.
La cattiva notizia per il futuro: i problemi di salute di Jackson e la voglia con cui Bryant possa ripresentarsi il prossimo anno, dopo aver chiuso tutte le pratiche in sospeso (MVP of the Finals e titolo conseguito da leader incontrastato). Infine, Bynum, la cui tenuta fisica andrà valutata ed esaminata con attenzione (in mezzo, le due situazioni contrattuali di Odom e Ariza).
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