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Boston Celtics - Cleveland Cavaliers 4 - 2


In tanti, dopo l’inaspettato finale della serie, si sono posti la fatidica domanda: hanno vinto i Celtics o hanno perso i Cavaliers? Ovviamente le sei partite giocate nelle semifinali della Eastern Conference non possono essere ridotte ad un bivio così netto; proviamo ad addentrarci nell’analisi per venirne fuori, si spera, con qualcosa di interessante in mano.

Come spesso accade, gara 1 aveva mostrato fin da subito tutti i motivi portanti dello scontro. Il fattore campo avverso imponeva a Boston di giocare a carte scoperte, provando il colpaccio dai primi minuti, mentre i Cavs rispondevano con un approccio più rilassato. Accelerando i ritmi, senza nemmeno scomporsi troppo, la squadra di coach Brown si era aggiudicata il match di apertura con una dimostrazione di forza che poteva impressionare i più; tuttavia, i dettagli e la situazione tattica lasciavano intendere che la serie sarebbe stata lunga ed aspra per entrambe le squadre.
Non era facile individuare il potenziale dei Celtics dopo una stagione zoppicante e un primo turno passato in scioltezza contro gli Heat; Cleveland si aspettava un gruppo di giocatori finalmente liberi da infortuni e discretamente riposati, ma forse non si attendeva l’organizzazione certosina e l’intensità portata in campo dai verdi. Il coach Doc Rivers e lo specialista difensivo Tom Thibodeau hanno una marcia in più rispetto al coaching staff rivale, e non tardano a dimostrarlo; i Celtics stanno in campo a meraviglia, c’è una contropartita studiata per ogni situazione e la difesa individuale regge nei punti critici: Perkins contiene O’Neal, Garnett contiene Jamison, Pierce e i due Allen si alternano su James costringendolo a sudarsi i suoi soliti punti. Il meccanismo funziona, gara 2 sorride ai Celtics, mentre tutti iniziano ad aspettarsi una risposta da parte di coach Brown. Il gioco dei Cavaliers si basa sull’ispirazione di James e sulle fiammate di Mo Williams, c’è un canovaccio da seguire e tanta improvvisazione; la bravura dei singoli rende il tutto efficace, ma quando dall’altra parte c’è una difesa così abile nel chiudere gli spazi, serve qualcosa in più. Non è un caso che la nota forse più positiva nel tracollo dei Cavs sia stato O’Neal: soltanto il gioco sistematico, attuato spostando la palla verso il Diesel, è stato capace di mettere sotto costante pressione i Celtics, caricandoli di falli e togliendo loro quelle energie che divengono preziose nel finale di partita. Se a questo aggiungiamo una serata entusiasmante da parte di James, troviamo la vittoria dei Cavs al Garden in gara 3; convincente, schiacciante, ma piena di dubbi non risolti. C’è un piccolo aggiustamento, la palla esce dalle mani di James un po’ prima del solito e si cerca l’attacco dal palleggio di Jamison per la conclusione o lo scarico. L’idea riesce solo parzialmente nel suo intento, perché Garnett non si lascia impensierire, continuando a dominare sul fronte offensivo. Quando è Jamison a marcarlo, The Big Ticket riesce comodamente a giocare sopra la sua testa, pescando i compagni e concludendo con un aggressività raramente vista negli ultimi tempi. Il leader di questi Celtics ha risparmiato energie preziose, il ginocchio sta bene e la squadra lo segue con fiducia; manca ancora un po’ di esplosività e di velocità negli spazi brevi, quella che aveva nel 2008, ma di fronte all’impatto del suo proverbiale agonismo questo diventa un difetto lieve. Solo Varejao riesce a stargli alle costole con efficacia, ma si carica spesso di falli e Brown preferisce schierarlo da 5. Soltanto nell’ultima partita prova a mettergli di fronte O’Neal, che al di là di qualche tiro dalla media distanza concesso in apertura riesce a ostacolarlo meglio dei colleghi; troppo poco, troppo tardi, l’immobilità tattica di Mike Brown aveva già causato danni irreparabili.
Gara 4 è dei Celtics che rientrano in carreggiata, la situazione è in parità, inizia a prendere forma il volto dell’uomo che ha veramente cambiato la serie. Se Garnett è indispensabile perché i Celtics possano competere ad alti livelli sfoderando la loro miglior difesa, Rajon Rondo è l’unico giocatore capace di fornire di volta in volta un imprevedibile valore aggiunto, spingendo i suoi alla vittoria. 29 punti, 18 rimbalzi, 13 assist, queste le strabilianti cifre di una prestazione individuale che entra di diritto tra quelle storiche della franchigia. In attacco Rondo fa ciò che vuole; dopo essersi beccato qualche scontro frontale con Shaq nelle prime partite ha aggiustato il tiro e riesce a lavorare negli spazi concessi dalla difesa dei Cavs, colpevolmente debole nel coprire le linee di penetrazione. L’asse con Garnett, che funge da fulcro mobile su tutti i 360° del campo, è letale, la fluida conduzione della transizione con il tipico servizio a Ray Allen di rimorchio sposta l’inerzia. Pochissime imprecisioni, ancora meno forzature, la serie di Rondo è solida, costante e con alcuni picchi che stimolano l’idea che sia Lebron James a marcarlo, come in effetti accadrà in qualche possesso. Questi exploit offensivi sono ancora più importanti alla luce della scarsa vena di Paul Pierce, limitato in attacco per continui problemi di falli e spompato nel marcare James.
Doc Rivers non è meno ispirato del suo playmaker, verso il quale spende parole d’encomio; lasciare Nate Robinson in panchina è una rinuncia costosa, ma ha il merito di spedire in campo un Tony Allen tirato a lucido, operoso in difesa e pungente in attacco dove taglia a canestro senza indugiare, come in passato, in penetrazioni rocambolesche. Rasheed Wallace non è in gran forma fisica, lo si vede lontano un miglio, ma col progredire della serie si cala nella parte e si mette in testa di difendere, facendo il lavoro sporco e concedendosi le sue solite conclusioni in attacco.
Al contrario la panchina di Cleveland fatica a produrre qualcosa di concreto; Delonte West, Daniel Gibson e Jamario Moon si alternano in campo con poca convinzione e Brown non riesce nemmeno a spostare gli equilibri dal punto di vista difensivo; i Cavs si sono dimostrati capaci di grandi prestazioni difensive ma non sono una vera squadra difensiva, capace di trovare nella propria metà campo i ritmi e le energie per poi attaccare al meglio, e quando l’attacco fatica la difesa inevitabilmente vivacchia.
I Celtics di gara 5 mettono in luce una volta per tutte il loro potenziale, chiarendo gli ultimi dubbi residui sulla loro volontà di vincere. I Cavaliers, assaliti sul terreno di casa, non rispondono; Lebron James è ridotto alla peggior prestazione della serie, forse una delle peggiori della sua carriera nei Playoff. La difesa di Boston è studiata per ostacolarlo, ma l’inefficacia delle sue soluzioni e l’arrendevolezza che traspare dal suo modo di stare in campo suscitano molti dubbi; è forse la prima volta che i riflettori illuminano il Prescelto sotto questa prospettiva e come al solito, quando si parla di lui tutto è in eccesso, tanto da spostare l’attenzione lontano dalle questioni veramente rilevanti. Si discute sulla mentalità del fenomeno di Akron, sulla sua capacità di reggere la tensione, si ipotizza addirittura che abbia già mollato, distratto dai pensieri sulla prossima stagione. James reagisce con la solita flemma, non si scompone e non vuole allarmare i compagni per i quali rappresenta, sempre comunque e in ogni luogo, una sicurezza; forse troppo. Difatti, il campo restituisce cristallina la realtà dei fatti, alla ricerca della quale tante parole erano state spese invano. Boston è motivata a mantenere il vantaggio e chiudere i conti alla prima opportunità, stringe i denti e gioca duro; James si carica da subito la squadra sulle spalle, si accorge di non essere in una di quelle serate ispiratissime al tiro, prova a chiamare in causa con più frequenza i compagni ma l’appello cade nel vuoto, allora torna a mettersi in proprio e butta in campo tutto se stesso, per non lasciare niente di intentato; ovviamente non può bastare. Boston chiude la serie 4-2 e si prepara ad affrontare Orlando con una squadra mutata negli equilibri dall’annata vittoriosa del 2008 eppure assai simile ad essa per mentalità, Cleveland fallisce per il secondo anno consecutivo e si rassegna a sperare che l’idolo di casa rimanga tale e non emigri in qualche altro stato dell’unione; i punti di vista possono essere molteplici e le interpretazioni altrettante, ma la realtà univoca è che i Cavs non erano abbastanza squadra per vincere.



Andrea Cassini

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