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NBA Playoff, Eastern Conference Finals: Boston Celtics - Orlando Magic 4 - 2


La tentata, e per metà riuscita, rimonta dei Magic nelle ultime partite non deve trarre in inganno; la finale della Eastern Conference ha dato un risultato netto e per molti versi inaspettato, restituendo all'opinione pubblica l'idea di una più che legittima contendente al titolo. Sto parlando dei Boston Celtics, corsari a Orlando in gara 1 e 2 e poi vicinissimi a chiudere sul 3-0. Una dimostrazione di forza ribadita, dopo un discreto sbandamento, in una gara 6 che non è stata mai in serio pericolo.
Da dove nasce la sconfitta di una squadra qualificatasi col secondo record migliore della Lega e che viaggiava imbattuta nei primi due round dei Playoff? Cerchiamo di scoprirlo.
L'ultimo articolo sui Playoff ad est del Mississipi si apriva con un dubbio da molti condiviso: nelle semifinali avevano perso i Cavs o avevano vinto i Celtics? Tentammo di rispondere coi dati in nostro possesso al momento, ma ad oggi la soluzione risulterebbe ancora più chiara; chissà che qualche giocatore in wine & gold, passato lo scotto dell'eliminazione, non stia già pensando che in fondo, rispetto ai colleghi della Florida, non sono andati poi così male.
La stagione regolare aveva sorriso ai Magic, così come la serie dello scorso anno conclusasi, dopo un avvincente confronto, con la vittoria di Orlando al Garden in gara 7. La superiorità degli uomini di coach Van Gundy era parsa evidente, costringendo i Celtics a tirare avanti con le unghie e con i denti prima di arrendersi sul più bello. Pierce, in quell'occasione, dette il peggio di sé, immemore della cattiveria agonistica che gli era valsa il premio di MVP delle Finals l'anno precedente; Garnett, invece, nemmeno c'era.
Questi gli antefatti di una serie attesa e accesa fin dall'inizio. I Celtics, i due uomini sopra citati in particolare, avevano un debito da pagare ma era lecito dubitare che mancassero energia e voglia sufficiente per farlo. I Magic guardavano già oltre, evitato lo scontro con dei Cavaliers egualmente assetati di vendetta andavano col ricordo alla frustrante e per certi versi sfortunata sconfitta contro i Lakers.
L'uno-due che i Celtics rifilano agli avversari sul loro terreno di casa è roba da mandare al tappeto persino un peso massimo. Dopo quanto visto nelle partite precedenti non è pensabile che Van Gundy non si aspettasse una difesa agguerrita da parte dei suoi avversari; eppure, di fronte all'impotenza dei Magic in gara 1, l'idea è quella di una squadra colta di sorpresa e capace solo nel finale di tirare fuori un po' d'orgoglio e tentare vanamente il sorpasso, mentre gli altri rifiatano. Howard, ai massimi storici di rendimento nella serie contro Atlanta, è azzerato. L'intera squadra lavora per evitare di fargli ricevere palla sotto canestro, l'unica zona da cui rappresenta una minaccia incontrastabile. Lui si intestardisce nel cercare ugualmente la soluzione personale ma Perkins, non è fatto nuovo, è uno dei migliori nel contenere il suo avversario 1-on-1. Wallace e Davis ci mettono chili, sacrificio e falli. L'idea di Rivers è tanto fruttuosa che non vi verrà mai meno: Howard non si raddoppia, che faccia 2 punti o che ne faccia 30, come del resto accadrà in più di una situazione. La prima partita, in sostanza, passa così. Lo scenario è simile a quello della semifinale a cui ci riferivamo prima: una squadra è pronta alla sfida ed ha un piano ben preciso, l'altra è colta di sorpresa e deve adattarsi in corsa. Van Gundy ci prova costantemente ma ottiene poco. Howard è stimolato a concentrarsi maggiormente ed è servito più spesso in movimento, Carter e Nelson si fanno carico dell'attacco provando a punire la difesa dei Celtics leggermente sbilanciata sugli interni, JJ Redick gioca tanti minuti e convince per la capacità di far girare la palla anche negli spazi chiusi. Le cifre migliorano, il gioco non molto: i Celtics impediscono il tipico dentro-fuori col quale i Magic preparano il terreno per il tiro da tre, riducono Carter e Nelson ad iniziative personali e soprattutto annullano quella che sarebbe stata, in questo contesto, la chiave di volta della serie: Rashard Lewis. L'ex giocatore di Seattle è seguito come un'ombra da Garnett, che paga a sua volta con un rendimento scarso in attacco; ma il sacrificio è ben speso se serve a spegnere la più grande minaccia di Orlando.
Non che dall'altra parte del campo la squadra della Florida stia a guardare; con Howard ad accumulare rimbalzi e stoppate nell'area pitturata la difesa è solida e chiusa, i Celtics non provano nemmeno a impostare il gioco in quella zona ma scommettono sugli esterni. Carter è in difficoltà su Pierce e il suo 1 contro 1 è spesso letale, The Truth torna a mettere a referto i suoi soliti numeri dopo una serie difficile oscurata dalla copertura di Lebron James. Ray Allen approfitta dei problemi alla schiena di Matt Barnes, suo difensore designato, e prova costantemente a seminarlo sui soliti blocchi. Come al solito, senza il contributo imprevedibile di Rondo, il sistema congegnato da Rivers e Thibodeau sarebbe stato vano. Gli ci vuole qualche tentativo per prendere le misure a Howard e Lewis ed entrare con più convinzione nell'area pitturata, ma nonostante gli spazi chiusi e la copertura di Nelson il “quarterback”, così lo chiamano sempre più spesso, dei Celtics domina la serie. Emblematico il suo rendimento sopra le righe in gara 3, la prima giocata a Boston; va con intensità a rimbalzo e a recuperare qualsiasi palla persa, memorabile quella sottratta a Jason Williams, e contribuisce a demoralizzare i Magic verso quella che sarà la sconfitta più netta.

C'è ancora spazio però per qualche brivido. Stan Van Gundy continua per la sua strada e senza inventarsi nulla di speciale raccoglie infine qualche risultato. Prova a inserire a sprazzi Ryan Anderson e Brandon Bass, ma i due sono evidentemente fuori dal sistema; Lewis cerca di mettersi in ritmo da solo, giocando più vicino a canestro, ma Garnett non lo molla. Al contempo, però, Nelson inizia ad adattarsi alla difesa e ad interpretare più efficacemente il ruolo di realizzatore, aprendo spazi per gli altri che Carter e Redick trasformano spesso e volentieri in occasioni per creare gioco. La vittoria giunge, anche se stiracchiata in un OT, in gara 4 e poi in una entusiasmante gara 5 dall'alto contenuto agonistico, tale da costringere alcuni Celtics a una prolungata sosta in infermeria. Ma le statistiche non sono (ancora) fatte per essere infrante: nessuna squadra ha mai recuperato dal 3-0 e i Magic si scontrano nell'ultima partita al Garden contro dei Celtics di nuovo solidi e precisi nell'esecuzione, trascinati da Rondo, Pierce da un inaspettato Nate Robinson.
Mancano ancora svariati minuti alla fine del match quando entriamo nell'atmosfera di una serie finale dal sapore antico ma dalle prospettive nuove; Beat LA, cantano i tifosi al Garden, e se c'è una cosa che ignoravamo ad Aprile ma che abbiamo scoperto a Maggio è che la loro speranza ha concrete possibilità di essere esaudita. Ma questa è un'altra storia, un'altra tappa di un'epica e interminabile rivalità a cui tutti, che lo si ammetta o meno, siamo affezionati.
Orlando, dopo gli inaspettati successi dello scorso anno torna a casa a leccarsi le ferite proprio quando mirava seriamente in alto. Poche sono le critiche da rivolgere ad una squadra protagonista di una grande cavalcata, fermata solo da un team evidentemente più forte e organizzato. Al di là delle questioni tattiche, però, è emerso chiaramente che questi Magic non disponevano di una mentalità adatta all'occasione, quello spirito agonistico che ti fa superare gli ostacoli rendendo al meglio nei momenti di difficoltà. Una caratteristica insita nella squadra e nel suo coaching staff, o un problema sorto in corso d'opera? A ognuno la risposta che preferisce, sperando che quella scelta dai Magic si riveli quella giusta.



Andrea Cassini

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