
Gara 7 doveva essere e gara 7 è stata. Qualsiasi altra conclusione sarebbe stata un'ingiustizia per tutti gli appassionati, anche per quelli che affrontavano con poco entusiasmo l'ennesimo capitolo dell'epopea Lakers-Celtics, convinti, in accordo con le parole di alcuni giocatori in campo, che il leggendario tempo delle rivalità fosse finito. La tesi poteva reggere per le Finals 2008, più squilibrate e meno combattute, ma non può che crollare al termine di questi sette intensi scontri, uno diverso dall'altro, in un crescendo di emozioni ricco di temi e spunti. Perderci nelle minuzie tecniche o in ragionamenti di fino avrebbe poco senso di fronte a due squadre che si sono equivalse sotto ogni aspetto; tralasciando l'evidenza, proviamo a trarre qualche conclusione.
Mentre scriviamo, si conosce solo qualche cenno sulle decisioni future di Phil Jackson, seriamente allettato dall'idea di ritirarsi dopo l'ennesimo successo ma certamente stuzzicato dall'idea di rimanere per tentare il terzo threepeat o, perché no, di cercare nuovi successi altrove. Partiamo proprio da coach Zen nella nostra analisi perché l'anello dei Lakers è stato vinto dalla squadra anziché dai singoli – basti pensare a Kobe Bryant, che imbrocca una clamorosa serata storta proprio in gara 7 e fornisce le migliori prestazioni realizzative nelle sconfitte, a Gasol determinante in casa ma opaco in trasferta, al rendimento estremamente altalenante di Artest. En passant, abbiamo toccato un punto fondamentale che chiude il cerchio: quando una squadra, meno marcatamente che in passato ma tutt'ora Kobe-dipendente, riesce a vincere in rimonta una strepitosa gara 7 per il titolo con il suo leader che spara a salve, allora il lavoro fatto sulla panchina dev'essere stato eccezionale, un vero capolavoro. C'è l'impronta indelebile di Phil Jackson sulla crescita caratteriale e tecnica di Gasol, memorabile il suo scontro con Garnett e Wallace: abusa di loro nei primi due match, cede le armi nei primi confronti a Boston ma poi, qui sta la grandezza, recupera il colpo e con armi sconosciute due anni fa li affronta alla pari fino a prevalere. Ma ancora di più, lo stesso Kobe Bryant che nella medesima serata in cui sbaglia un tiro dopo l'altro si dedica con furore al rimbalzo e guida una difesa di rarissima precisione difendendo su Rondo come nessun altro aveva fatto in questi Playoffs: un'immagine a cui uno spettatore poco attento faticherebbe a credere. Sì, abbiamo parlato di difesa: pur senza quell'attitudine che caratterizza il ciclo dei Celtics e che prende nome e forma da Kevin Garnett, è stato nella propria metà campo che i Lakers hanno costruito e soprattutto portato a termine la rimonta decisiva; non c'era solo agonismo e forza d'animo, ma anche tanta concentrazione e organizzazione. L'arte del maestro zen, ad ogni modo, viene fuori nella sua migliore espressione quando ha a che fare coi soggetti più difficili; il capolavoro è Ron Artest, uno che, per intenderci, poco tempo prima si era permesso il lusso di arrivare in netto ritardo all'allenamento il giorno dopo aver segnato il canestro decisivo contro i Suns. Dall'inizio della stagione il suo inserimento sembrava una bomba ad orologeria, un fattore di incertezza che rischiava di far saltare gli equilibri ormai ben assodati dei Lakers. Ma Jackson lo ha aspettato, lo ha capito, non si è dannato l'anima per portarlo nel suo stesso ordine d'idee, lo ha tenuto al suo posto anche durante una serie finale incolore con una difesa su Pierce inferiore alle attese. Risultato: in gara 6 e 7 Artest è decisivo dove non te lo aspetti, nel settore offensivo.
Dall'altra parte, Rivers e Thibodeau non hanno demeritato di fronte al più blasonato collega. Sempre più entusiasmante come motivatore il primo, rapido e funzionale negli aggiustamenti difensivi il secondo, dopo la disarmante vittoria dei Lakers in gara 1 c'è stato un continuo susseguirsi di soluzioni tattiche che, come mosse di scacchi, nel ricercare la perfezione davano luogo a prospettive diverse, coi protagonisti che cambiavano senza mutare l'equilibrio. L'opposizione di Fisher sulle uscite dai blocchi di Ray Allen, straordinariamente efficace dopo gara 2, lo stesso Fisher che insisteva ad attaccare Rondo dal palleggio con grandi risultati in gara 3, la difesa su Rondo schiacciata verso il fondocampo, Tony Allen a marcare Kobe Bryant, l'alternarsi di Wallace e Garnett su Gasol e l'emergere del Big Ticket in attacco, a sfidare il catalano sfondando verso il canestro come ai vecchi tempi. Rivers aveva anche a disposizione due jolly da giocarsi dalla panchina, esplosi in una gara 4 emozionante come nessun'altra: Glen Davis e Nate Robinson, incapaci però di ripetersi nei successivi confronti.
C'è poco altro da aggiungere, se non una riflessione sul futuro. Difficile pronosticare cosa accadrà alle due squadre che hanno caratterizzato questi ultimi anni. Il traguardo raggiunto dai Lakers è di quelli che rischia di appagarti, ma la competizione a Ovest potrebbe non essere così aspra nella prossima annata. I Celtics, pur in una stagione che li ha visti intraprendere una favolosa e inaspettata cavalcata nei Playoffs, hanno mostrato segni di cedimento; i Big Three sono sempre più vecchi e spesso acciaccati, il contratto di Ray Allen è in scadenza e c'è poco materiale già pronto in casa da affiancare alla crescita di Rondo. Aggiungiamoci pure la dipartita di Thibodeau, prossimo head coach dei Chicago Bulls, e il probabile anno sabbatico che si concederà Doc Rivers, e ci avvicineremo pericolosamente alla definizione di “fine di un ciclo”. Ma con solo una vittoria all'attivo e un po' di sfortuna di troppo (chiedere al ginocchio destro di Garnett, anno 2009, per conferma) potrebbe esserci la voglia di tornare lì a provarci, magari con qualche manovra di mercato, magari di nuovo allo Staples Center: non ci sarà più il numero 6 di Bill Russell, non ci saranno più gli anni '80 di Bird e Magic, ma a noi, onestamente, Lakers-Celtics continua a piacere e forse non smetterà mai di farlo.
Andrea Cassini
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